venerdì 30 novembre 2012

Conversazioni sui criteri di selezione dei soggetti da intervistare


La definizione dei criteri da seguire nella selezione dei soggetti da intervistare ha dato il via ad una vivace discussione sulle motivazioni alla base di tali scelte e sulle tematiche della ricerca in generale. Di seguito alcuni stralci della conversazione -avvenuta via posta elettronica- ricchi di spunti e di osservazioni di cui è bene tenere memoria.


da Stefano:
Cari amici,
concordo con i criteri Pirone/Rebeggiani, ma con una specificazione: non vedo la necessità di preferire (punto 2) quanti abbiano avuto una pluralità di tipologie contrattuali a chi, ad es., ne abbia avuto solo una. Non è la modalità contrattuale ciò che ci interessa, ma la natura atipica (come definita sub 1).
da Francesco:
Caro Stefano
concordo con la tua osservazione; un giovane con un'esperienza di lavoro atipica e precaria ci interessa. Questo tipo di giovane lavoratore non può essere escluso e dobbiamo rilevare anche questo tipo di traiettoria ed esperienza; la condizione 2 è stata introdotta per fare uno sforzo aggiuntivo per trovare traiettorie professionali atipiche un po' più articolate, da qui poi anche l'idea di preferire giovani un po' avanti con l'età, senza escludere gli altri. Resta necessario il criterio 1, orientativi quelli successivi.
da Giustina:
(…) In merito ai criteri mi pare chiarissimo quello che avete scritto e utile ovviamente, mi resta però la perplessità che non sono forse riuscita bene ad esprimere fino ad ora rispetto a quello che fin dall'inizio Francesco ci propone di studiare. Io penso infatti che studiare/cercare soggetti con Esperienza lavorativa atipica con la pubblica amministrazione locale, significhi operare una scelta di campo molto chiara, ossia studiare di fatto i profili medio alti, laureati nella maggior parte dei casi, al massimo, pochi, diplomati, questo va benissimo perché so bene che la precarietà odierna riguarda anche questo tipo di soggetti, ma non sono però esattamente quelli che io immaginavo dovessimo osservare e raccontare in virtù di una così forte caratterizzazione del nostro territorio. O per lo meno non sono i soli che io volevo capire. Non so se riesco a spiegarmi ma io pensavo che la nostra dimensione territoriale - Napoli o l'area metropolitana di Napoli fa poca differenza da questo punto di vista -  implicasse la realizzazione di una ricerca che a partire da quello che abbiamo sempre pensato sul mezzogiorno, dovesse andare a vedere che faccia avesse oggi e dove fosse collocata quell'offerta di lavoro che un tempo chiamavamo  zoccolo duro della disoccupazione e che buttata dalla porta della pubblica amministrazione - perché il privato nel territorio non c'è - rientrava dalla finestra, ed erano pure i più fortunati. Insomma forse mi ero fatta come Francesco un mio percorso di ricerca che cercava di soddisfare una mia curiosità però volevo dirvela perché penso che emergerà alla fine del lavoro che è di questo tipo di precarietà non rappresentata che ci siamo occupati.
Infine se devo tradurre in pratica quanto indicato nei criteri allora ad esempio rispetto al comune di Napoli rientrano nella categoria di soggetti che hanno avuto un rapporto diretto di lavoro atipico con la pubblica amministrazione anche gli architetti di cui abbiamo parlato tanto tempo fa e che avevamo escluso? Invece, e lo dico sempre per capire se ho capito, gli LSU ancora in relazione con Comune (pochi) e con regione (di più) non li prendiamo?
Ciò detto penso di partire dal cercare un po' di persone che abbiano avuto a che fare con l'ampia realtà dell'assistenza tecnica alla regione Campania.
da Enrica:
Penso che Giustina abbia toccato un punto importante. Va bene se studiamo un segmento non troppo specifico della realtà locale – e proprio per questo poco studiato –  ma dobbiamo essere consapevoli della scelta. Poi stiamo sempre attenti a non studiare i percorsi lavorativi soltanto: non è questo l’oggetto della ricerca. 
noi dobbiamo capire chi e se li ha rappresentati nelle varie tappe del loro percorso
da Francesco:
Concordo con Giustina che i criteri utilizzati ci portano ad individuare prevalentemente persone con titoli di studio medio-alti (diplomati a salire e anche oltre la laurea), meno gli LSU. Questo, però, rientra anche in una prospettiva di ricerca che tenta di distinguere i precari nel senso attuale del termine dal "precariato storico" degli enti locali e della ridefinizione del problema della rappresentanza. Può essere un modo per approcciare la questione, ma ovviamente non esclusivo, lo dice Giustina stessa.
Questa prospettiva ha interesse in relazione al dibattito sul società della conoscenza, delle nuove professioni legate ai settori della conoscenza, e delle nuove modalità di impiego atipiche (logiche miste dipendenza autonomo/professionale imprenditorialità) anche dal punto di vista contrattuale (collaborazioni, la forma atipica per definizione e più problematica in termini di rappresentanza) e su presunte centralità di certi ceti professionali. Si entra per questa via sul dibattito sul postfordismo, sulla individualizzazione, sulle diverse prospettive teoriche emergenti (società in rete, società dell'informazione, società della conoscenza...). La specificità del contesto napoletano, poi, è legata all'estensione delle occupazioni private e nel pubblico che coinvolgono queste figure professionali (pensiamo ad esempio a quello che ci ha detto Benassi della sua ricerca). Queste figure professionali sono rilevanti rispetto al tema della rappresentanza perché riguardano: a) la natura del lavoro (presunta nuova, rinnovata in parte, completamente innovativa in altre parti, per esempio in relazione alle tecnologie), b) le forme occupazionali (fuori dalla logica del lavoro dipendente); c) e la difficoltà del sindacato tradizionale rispetto a questi soggetti. Questa prospettiva, inoltre, ci permette di evitare di guardare gli "ultimi", ma di guardare al ceto medio o meglio alla crisi del ceto medio, alla sua fragilizzazione e alle forme della rappresentanza. Interessante?
Faccio alcune osservazioni sul titolo di studio:
- alto titolo di studio, non significa profilo professionale elevato (accreditamento formale e competenze effettive);
- c'è, poi, il problema della corrispondenza al titolo di studio dell'inquadramento professionale e del contenuto del lavoro - elementi da verificare sul campo - (tesi della overeducation)
- ma anche della corrispondenza in termini di contenuto tra quello che si è studiato e quello per cui si viene impiegati (tesi del mismatch)
Il dibattito è molto articolato e chiama in campo, però, la tematica della ruolo dell'istruzione nella società contemporanea in termini di mobilità sociale o, da altra prospettiva, come forma di garanzia individuale da processi di "squalificazione" sociale... interessante?
Non è il punto di vista sugli ultimi... ma la precarietà - mi sembra, ma cerco conferma - acquista valore euristico se riesce a far emergere un mondo sociale che non è quello dei poveri e dei lavoratori poveri e dei problemi di riconoscimento e rappresentanza. Non ne sono certo, ma aspetto di confrontarmi con voi.
Comunque questa mi sembra essere la pista di discussione che può portarci a raffinare le nostre elaborazioni.
da Giustina:
Ok, mi hai convinto, io resto legata - anche per questioni anagrafiche e di frequentazione - ad una visione che parte da quelle figure e quei percorsi che da sempre mi hanno interessato (scientificamente e politicamente) e che sono quelli ai margini, il vecchio che non siamo stati capaci di risolvere, però io non intendevo necessariamente gli adulti maschi capifamiglia senza titolo di studio, io pensavo anche e soprattutto a giovani più o meno qualificati (in maniera media) che per collocazione di classe di appartenenza, per strumenti culturali poveri (hanno il diploma ma un analfabetismo di fatto) e povertà di territorio in cui vivono non hanno la capacità di accedere a quelle strade a cui stai pensando tu. Tuttavia concordo, che oggi questi rappresentano solo un pezzo (ma come tutti, pensiamo a dei pezzi della realtà, sono pezzi, anche come abbiamo entrambi detto, quelli a cui pensi tu e via dicendo) e in questo senso nel chiarirmi progressivamente le idee mentre parliamo direi che per me in una ricerca ideale oggi  a Napoli andrebbe studiata la compresenza e i punti di contatto e di distanza fra la precarietà dei padri e quella dei figli, perché credo che molte cose si scoprirebbero:  che la seconda si mantiene sulla prima, che la rappresentanza i secondi non la cercano e i primi non l'hanno trovata  e via dicendo, nella mia idealtipica ricerca a Napoli. Detto questo io per prima quando ho lavorato sulle coppie flessibili ho intercettato solo giovani dal diploma in su (e oltre la laurea) e ho capito e scritto che il solo titolo di studio non indica niente in termini di profilo professionale poiché è il concorrere di molti fattori che definisce la posizione lavorativa occupazionale e personale (e quindi la precarietà) dei soggetti: capitale sociale, familiare, economico e culturale intrecciato alle reti che in questo modo ti puoi costruire fanno di te uno inserito in un percorso in cui le competenze e le diverse esperienze lavorative formano una traiettoria che definisce un profilo o una vita disgraziata in cui niente si cumula con niente ed in cui i temi della overeducation o dello spiazzamento la fanno da padrone. E' per questo che mi permetto di citarmi nella suddetta ricerca dal diverso intrecciarsi di questi elementi veniva fuori la possibilità di articolare la precarietà in cinque dimensioni che non tutti i soggetti esperivano (precarietà del lavoro, dell'occupazione, abitativa, economica e esistenziale). 
Sul punto ruolo della scuola siamo ad un altro tema che svetta nel capitolo 'i miei temi di ricerca a Napoli se avessi soldi' non solo la mobilità sociale ma anche l'intreccio fra scuola, il tema della valorizzazione del capitale umano e  - come abbiamo detto nella tesi di dottorato di Emanuele - riproduzione istituzionale delle diseguaglianze attraverso di essa, che vuol dire legare e leggere queste alle scellerate recenti scelte di politiche del lavoro. 
da Giustina:
(…) Volevo solo aggiungere che riflettendoci non è solo la precarietà dei padri e quella dei figli che appare interessante confrontare in questa città ma anche quella degli stessi figli che in parte continuano ad essere esclusi e marginali come i padri e in parte mostrano le caratteristiche della esclusione e marginalità definita dalla flessibilità: insomma il tema mi pare la diversità della/nella  precarietà. Sempre coscienti come dice Enrica che di questi l'aspetto centrale deve sempre essere come sono e se lo sono rappresentati. 
da Francesco:
Cara Giustina
hai fatto bene a segnalarci di recuperare la tua recente ricerca sulle coppie flessibili che è utile e necessaria per la ricostruzione del contesto d'indagine e per recuperare le categorie analitiche che già hai utilizzato, teoricamente ed empiricamente, e che ci tornano utili per leggere e interpretare i casi empirici quanto fare le interviste.
E' poi molto intrigante la prospettiva generazionale per la comprensione dell'evoluzione della precarietà; discorso analogo e ancora più pertinente vale per la rappresentanza.
da Valentina a Giustina:
entro nel merito ma solo un po' ché preferisco riparlarne di persona: a me la proposta di Francesco piace.. sarà che è più riflettuta e quindi ben argomentata, sarà che guarda a un target a cui mi sento particolarmente vicina, sarà che la vedo concreta e realizzabile, con tutte le difficoltà che ci siamo dette.. tutta la questione sulla difficoltà di capitalizzazione della formazione, sullo scollamento tra titoli e professione, sul ruolo dell'istruzione in termini di mobilità sociale mi sembra molto attuale ed interessante. Capisco la sua attenzione alle specificità del territorio ma come forse ci siamo dette altre volte la mia paura è che guardare sempre e solo alle "vecchie" precarietà ci fa sfuggire le nuove e diverse e forse chi lo sa anche specifiche del territorio nuove forme di precarietà che forse punti di contatto con le precedenti non ce le hanno neppure ma non per questo sono meno gravi, meno invasive e mi viene da dire meno invalidanti..... insomma, ma è solo una provocazione, sono più precaria, e più povera e meno rappresentata, io o il mio alter ego che 40 anni fa cuciva i guanti in uno scantinato per poche lire al mese?
da Giuseppe a Giustina:          
Ho appena finito di leggere la conversazione e credo che la questione da lei posta sia centrale, soprattutto se si tratta di un Prin che ha per oggetto la rappresentanza dei non rappresentati a NAPOLI. Io penso che guardare al ceto medio, alla sua fragilizzazione e alle forme della rappresentanza significhi occuparsi di un segmento di lavoratori che vive si la precarietà e la drammaticità delle condizioni di vita e di lavoro che essa comporta ma che è ben lontana da quella precarietà che invece interagisce con meccanismi di esclusione di diversa natura e che qui a Napoli sembra essere quella più diffusa. I suoi effetti sono spesso disastrosi e gli interessi delle persone che la subiscono non hanno trovato e non trovano ancora alcuna forma di rappresentanza. Coloro che la vivono non sono gli ultimi. Gli ultimi sono ancora lontani e interessano a pochi.


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