martedì 29 dicembre 2015

Diritti e salari: intervista a Ruth Milkman

Sull’inserto del Corriere della Sera «La Lettura» del 27 dicembre 2015 è stata pubblicata un’intervista di Carlo Baroni a Ruth Milkman (CUNY Graduate Center, New York), realizzata a Milano, dove la sociologa americana è intervenuta alla conferenza internazionale Precarious & Unrepresented. New workers facing the deficit of rights and social representation il 16 dicembre 2015 all’Università di Milano-Bicocca.

Diritti e salari, il lavoro è cambiato Siamo tornati indietro di un secolo. Parla la sociologa americana Ruth Milkman: negli Stati Uniti vince il fondamentalismo del mercato. Colpa delle tre D: deregulation, deindustrialization, deunionization
di Carlo Baroni


Il lavoro che non c’è. E quando lo trovi non ti senti al sicuro lo stesso. Il futuro dell’occupazione visto dall’altra parte dell’Atlantico con la sociologa Ruth Milkman, protagonista nei giorni scorsi all’Università Bicocca di Milano di un convegno sul precariato che per qualcuno è, spesso, sinonimo di flessibilità. Ma è proprio così? «La flessibilità è un termine ampiamente utilizzato negli Stati Uniti; ma il problema è: flessibilità per chi? Il più delle volte è una flessibilità a vantaggio solo di una parte: i datori di lavoro che decidono le regole. Mentre i lavoratori devono adattare la propria vita a soddisfare queste nuove esigenze. Diventare disponibili a offrire la loro prestazione ogni volta che il datore di lavoro lo richiede. Tutto ciò ha incrementato l’insicurezza per il posto. Un numero elevato di lavoratori statunitensi possono essere licenziati in qualsiasi momento e senza giusta causa. È illegale solo licenziare le persone sulla base di sesso, razza, e per alcune altre categorie protette, ma per il resto, se il datore di lavoro decide di licenziare, il dipendente non ha nemmeno la possibilità di fare ricorso. Questa non è una situazione nuova, ma negli ultimi anni, anche prima della crisi economica, è in crescita. Penalizzati soprattutto i lavoratori più anziani che vengono licenziati più facilmente per abbattere i costi».

È finita l’era del welfare?
«Negli Stati Uniti non l’abbiamo mai conosciuto, almeno non nell’accezione europea. Ci ha provato l’amministrazione Clinton, nel ’96, a riconoscere alcuni diritti alle fasce deboli. Ci ha riprovato l’attuale presidente con la riforma sanitaria, Obamacare. Negli Usa si pensa sempre che sia il libero mercato a determinare il destino degli individui, e in questa prospettiva i “diritti garantiti” sono problematici».

I sindacati hanno un futuro? O, forse, non hanno più neanche un presente?
«Negli Usa i sindacati sono sotto attacco da decenni. Nel privato gli iscritti sono scesi dal 35 per cento della metà degli anni Cinquanta al 6,6 per cento nel 2014. Hanno una maggiore presenza nel settore pubblico con il 35,7. Ciò ha avuto conseguenze enormi, ed è una delle cause della massiccia crescita della disuguaglianza del reddito a partire dal 1970».

Karl Marx ha perso. Ma siamo sicuri che Adam Smith stia vincendo?
«Negli Stati Uniti vige quello si chiama fondamentalismo del mercato, quasi un’ideologia che si è acuita dagli anni Settanta in poi: la certezza che il libero mercato è la risposta a tutti i problemi. Questa idea è stata utilizzata, e anche strumentalizzata, allo stesso modo dalle amministrazioni repubblicane e democratiche per giustificare la deregulation, i tagli al welfare e una flessibilità sempre più larga. In questa prospettiva Adam Smith ha vinto. Ma dopo la crisi del 2008 le cose sono cambiate. Grazie anche al movimento Occupy Wall Street, la preoccupazione per la crescente disuguaglianza economico-sociale è aumentata notevolmente. E per la stessa ragione c’è molto più scetticismo riguardo alle acrobazie finanziarie di Wall Street e all’aumento della forbice nei redditi: i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. I giovani sono stati colpiti più duramente dai cambiamenti del mercato del lavoro, anche se non ai livelli elevati e preoccupanti dell’Europa, e hanno accumulato debiti senza precedenti per potersi permettere gli studi universitari. Sono loro i più critici verso il sistema e in prima linea nella creazione di movimenti di protesta».

La linea che divide il precariato dal lavoro nero o non riconosciuto, spesso, è molto labile.
«C’è un numero crescente di posti di lavoro irregolari (per esempio, i conducenti Uber), ma fino ad ora le cifre sono modeste, meno dell’1 per cento del totale. In più ci sono molti liberi professionisti e imprenditori indipendenti che, però, lavorano in settori a basso salario. Infine ci sono i lavoratori che sono pagati a giornata e, spesso, che non sono contemplati dalle statistiche dell’economia ufficiale. E non abbiamo stime affidabili su quanti lavoratori ci siano in queste categorie, anche se i dati sulla loro crescita sembrano essere sovrastimati».

Il boom del precariato è una conseguenza della crisi economica del 2008?
«Tutto questo è cominciato ben prima della crisi, ma la recessione ha portato a un modo diverso di porsi davanti al mondo del lavoro. Quindi il problema non è direttamente legato alla crisi ma è di portata molto più grande. Un’altra osservazione: ci sono alcuni lavoratori, specialmente tra i giovani, che preferiscono un lavoro di tipo non subordinato, a loro piace l’idea di essere il capo di loro stessi, e non sembrano troppo preoccupati di avere la garanzia di un posto sicuro. Pensano che la sicurezza del posto è spesso illusoria e così scelgono il lavoro autonomo o di diventare freelance».

Però, per altri versi, sembra si stia tornando indietro a un modello antico di capitalismo.
«Sappiamo che il periodo d’oro per il lavoro negli Usa coincide con gli anni Trenta: il New Deal che tirò fuori il Paese dal fango della Grande Depressione. Le riforme sulla sicurezza sociale (1935), i salari minimi e il pagamento degli straordinari (1938), così come i diritti dei sindacati (1935). Uniche escluse le donne, che continuavano a non godere delle conquiste ottenute dagli altri lavoratori. Ma a partire dagli anni Settanta abbiamo assistito a un’erosione di questi diritti con il crescere delle politiche neoliberiste. Con l’arrivo delle tre D: deregulation, deindustrialization, deunionization (indebolimento del sindacato). Questo ha trasformato il mercato del lavoro. E se leggiamo la storia in quest’ottica, si può dire che la precarietà assomiglia alla situazione di un secolo fa».

Come si immagina il mondo del lavoro domani?
«Alcuni cambiamenti importanti si stanno già verificando. E sono legati alla crescita dell’immigrazione. Stiamo parlando di tipologie molto varie di nuovi lavoratori. Dai tecnici iper specializzati ricercati e dagli stipendi molto elevati ai lavoratori sottopagati, come ancora oggi le colf, ai dipendenti a giornata, che si arrabattano per sbarcare il lunario. Tutti hanno contribuito e stanno contribuendo alla vitalità economica degli Stati Uniti. Eppure, per qualcuno, rappresentano la causa della crisi. E sono ritenuti i responsabili del calo dei salari. Gli immigrati, in particolare gli undici milioni privi di documenti, sono diventati un comodo capro espiatorio».

Corriere della Sera «La Lettura», 27 dicembre 2015

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